Dirlo col senno di poi a primavera sarebbe troppo tardi, il momento per mettere l'argomento sul tavolo - finché si riesce a ragionarci con la prospettiva più ampia possibile - è adesso, nell'avvicinamento alla prima stracittadina dell'anno.
Sei derby in una stagione - la stagione con Costone, Mens Sana e Virtus per la prima volta nello stesso campionato - sono una festa del basket cittadino e un inno alle identità. Bello, godibile, unico. Purché però sia un evento eccezionale. Una volta. Per una stagione. La prospettiva che sia questa la nuova realtà del basket cittadino sarebbe una sconfitta.
Il bello della stagione con le tre storiche squadre senesi tutte nello stesso campionato è che possa essere l'inizio di qualcosa: oltre ogni leggenda scherzosa o seriosa tramandata in mezzo secolo, è questo il lascito più forte che ci ha lasciato l'epica dei derby degli Anni Sessanta. Un big bang che deflagrando dalla miccia delle rivalità sprigioni l'energia generatrice di una nuova stagione del basket senese, l'innesco di una nuova fiammata di amore della città per la pallacanestro. Il risveglio delle passioni grazie al campanile potrebbe essere la cosa migliore che ci si potesse augurare per il basket cittadino dopo quello che ha passato negli ultimi anni, e viste le scorie da cui si sta dimostrando difficilissimo riemergere ai livelli vissuti per decenni.
E' la stagione in cui si ridanno le carte e le società ripartono tutte più o meno alla pari, almeno in termini di campionato disputato (anche se con ambizioni diverse): c'è chi ha dalla sua un vantaggio economico, chi l'ambizione, chi la base del pubblico, chi le strutture, chi il progetto tecnico... [Su quello che invece manca a ciascuna per salire di livello ci si invece soffermati qui]. Che si esca da questa stagione e dalle prossime con la Mens Sana che torni ad affermarsi come la prima realtà senese, se si realizzeranno scenari fuori dal campo che al momento non si vedono, o se invece una tra Virtus e Costone si dimostrerà all'altezza di raccogliere la torcia, limitarsi a voler piantare la propria bandiera sul campanile di prima squadra cittadina significherebbe ignorare la parte più importante: la responsabilità che ne consegue di diventare la società guida di una città che vuole e deve tornare a vedere il basket ai livelli in cui si colloca naturalmente.
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Ecco perché no, non sarebbe il bene del basket cittadino augurarsi di ritrovarsi di nuovo qui, tra un anno, a celebrare una nuova stagione con le tre storiche squadre senesi nello stesso campionato. O meglio, potrebbe esserlo nel breve termine solo ipotizzando di ritrovarsi tutti insieme l'anno prossimo in Serie B Interregionale (quarta serie): scenario altamente improbabile, anche considerando salti di categoria non sul campo. E potrebbe esserlo nel lungo termine solo ipotizzando di ritrovarsi tutti insieme tra qualche anno in A2 (seconda serie), o diciamo anche tutte e tre in Serie B (terza serie), tanto siamo comunque entrati nel campo dell'impossibilità: comunque non succederà.
Oltre la sbornia del momento, il magnetismo della rivalità, il fascino del duello, il gusto dello sfottò, il sangue al cervello del confronto diretto... l'argomento è chiaro: la Serie C Gold può essere il livello della terza squadra senese, forse della seconda. Ma chiunque emerga come squadra guida del movimento cittadino ha la responsabilità di portare il basket di Siena in una categoria coerente con la sua storia. Il bene della pallacanestro senese è che torni a esserci una società che si stacca dalle altre e faccia da traino a tutto il basket cittadino ritagliandosi una posizione nella piramide dei campionati in linea con quello che ha sempre rappresentato Siena nell'Italia dei canestri: non una società che abbia come obiettivo la supremazia cittadina, ma che sia una realtà riconosciuta e riconoscibile del panorama nazionale.
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Tutto questo non è un invito o un auspicio, pur di dimostrarsi una città in grado di poter tornare a permettersi realtà di più alto livello, a unire le forze. Basti il monito di quanto successo altrove. Non ci provate. O almeno non nella misura in cui significherebbe annullare le identità, e già chiarendo questo si tolgono dal tavolo le ipotesi più semplicistiche, e irrispettose. Le identità sono sopravvissute decenni nonostante le differenze di categoria. E con la dignità e la passione di sempre si perpetueranno ancora, nelle rivalità giovanili oltre che nelle rispettive culture societarie, quando una tornerà a staccarsi di nuovo.
L'identità qui non è l'ottusità di mondi chiusi in se stessi, bensì l'ancoraggio nella propria storia di realtà che invece sono comunicanti e respirano l'una dell'altra: chi oggi lavora qui (come giocatore, allenatore o anche massimo dirigente) ieri lavorava di là e magari aveva iniziato dall'altra parte ancora. Seppur aperti alle "migrazioni" cittadine, ogni volta avvertendo il peso di quello che comporta il passaggio da una parte all'altra, l'identità è la difesa di quel sistema di valori che si è creato in ogni società con le sue differenti peculiarità, e che si rispecchia nel pozzo delle proprie giovanili e nell'affezione del proprio seguito di tifo. Questo patrimonio unico è il punto di partenza da cui dire: adesso godiamocela. Godiamoci il momento di una stagione che non c'è mai stata, e la botta di adrenalina per quello che da qui deve nascere. Da questo dipende di cosa ci ritroveremo a parlare tra un anno.
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