Siamo sempre stati dei sentimentali. Anche se siamo fatti di cotone e nylon, le belle storie ci appassionano e commuovono. E’ per questo motivo che ricordiamo alla perfezione il giorno in cui lui ci scelse. Romain Guessagba Lebel. Anche il nome di battesimo, fatto di reminiscenze e suoni africani, ci piacque subito.
Quella mattina a San Antonio splendeva il sole, l’allenamento era fissato per le ore 10 a.m., ma già due ore prima lui era lì che si preparava per entrare in palestra. Pantaloncini e maglietta griffati Spurs e poi, per ultimi, noi, infilati con cura nelle lunghe braccia d’ebano. Da quel giorno siamo diventati i polsini di Sato. Il migliore giocatore africano che abbia calcato i parquet europei, secondo alcuni. Di sicuro a Bimbo, sua città natale nella Repubblica Centrafricana, uno così non l’avevano mai visto.
Le doti fisiche erano evidenti, note a tutti. Pensate a noi, ad esempio. Indossati su un braccio normale saremmo sembrati polsini extra large, extra lunghi, extra spugnosi; nelle pertiche in dotazione a Sato sembravamo tutt’al più un nastro isolante da elettricista formato standard. Con quelle braccia poteva fare di tutto: da aiutare la mamma a prendere le stoviglie senza alzarsi dalla sedia, a parare tiri impossibili come portiere in un campo da calcio (sua grande passione e primo vero amore); da grattare la testa a un elefante, a depositare docilmente la palla in un cesto dotato di retina.
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Era il ’99 quando un Romain non ancora diciottenne sbarcava negli USA con una borsa di studio che avrebbe contribuito a realizzare il suo sogno, da principio alla Dayton Christian High School, dove fa l’adulto coi bambini (26.6 e 16 r di media), poi a Xavier dove costruisce le sue doti uniche di atleta, rimbalzista e difensore, chiudendo nella stagione da senior con 16 p e 8 rimbalzi a esibizione. Poi San Antonio, e successivamente l’Italia, a Jesi, dove la gente che lo vede giocare pensa sinceramente di trovarsi di fronte ad uno pterodattilo sotto forma di uomo: 25 p e 8 r di media nella stagione, 35 di media nei playoff. Così. Quell’anno, per non farsi mancare niente, gioca anche l’ultima parte di stagione a Barcellona; poi finalmente, con noi al seguito ben impacchettati nel borsone, l’arrivo sulle lastre. E’ il 2006.
A Siena giocherà per 4 stagioni e vincerà 4 scudetti, 2 coppe Italia e 3 supercoppe Italiane, con tutto il ‘resto del carlino’ delle partecipazioni alle F4 di Eurolega e dei titoli personali di MVP (anno 2010). E noi lì, presenti, in prima linea, a detergere sudore, partita dopo partita. La cosa impressionante, ciò che ci ha colpito fin dal primo istante, è l’umiltà con cui tutto questo mondo gli passa davanti. Nelle interviste, a cui era allergico come un neonato alla lana grezza delle Highland, il ragazzo aveva uno schema ben preciso: prima si ringrazia Dio, poi si risponde, in maniera educata ma più telegrafica possibile, alla domanda fatta. Questo suo comportamento faceva di Romain un giovane saggio, capace di dispensare il suo sapere alla perfezione sul campo di gioco: presenza mentale, elevazione straordinaria, ottimo tiro dalla media e, grazie agli insegnamenti ricevuti a Siena, anche da oltre l’arco. In difesa poi, c’era una costante: fra gli esterni, il più forte degli altri toccava sempre a Sato, chissà perché. Alcuni avversari probabilmente lo sognano ancora la notte, e rivedono quel preciso momento in cui per loro si oscurava la vallata.
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Nei floridi anni mensanini il suo contributo e le sue percentuali dal campo restano stratosferiche; la media punti ovviamente si abbassa, anche perché la batteria di attaccanti che via via si trova a fianco dimostra di avere una certa capacità nel trattare il pallone. Il suo primo anno è quello con Joe Forte, che fuori dal campo era prevedibile come l’assassino di Milwakee ma che in campo diceva la sua. Nel suo ultimo anno, il 2010, accanto a lui spiccano figure come il ‘novello Davide’ T-Mac, il clavicembalista Lavrinovic e il sorriso 52 denti a prova di dentifricio Durbans di Henry Domercant. Quanti high five ci siamo scambiati con Zisis dopo che aveva alzato un alley hoop con precisione certosina, quante pacche sul sedere di Shaun dopo uno dei suoi tanti passaggi illuminanti.
Come quella volta che a Siena arrivò l’Efes. Playoff di Eurolega, 11 marzo 2010. I turchi, allenati come adesso dal mago della pastasciutta e dei parquet Ergin Ataman, schieravano tra le proprie fila gente come Nachbar, Rakocevic, Shumpert, Gonlum, il ‘senese’ Bootsy Thornton ed altri (tra cui l’idolo indiscusso Mario Kasun. Vi ricorda qualcosa?). Il problema per loro è che quella sera Romain gode di uno stato di assoluta grazia cestistica. Parte martellando dall’arco, prosegue spaccando la difesa in penetrazione e chiude con canestri dal post basso degni di un clinic di Patrick Ewing. E poi rimbalzi, assist, recuperi, per una valutazione che lievita come un ciaccino dello Sclavi.
Alla sirena finale, come d’abitudine, gli occhi della tigre di Sato, top player europeo, dopo aver sbranato avversari senza alcun riguardo, tornano ad essere quelli sorridenti e gentili di sempre, quelli di Romain Guessagba Lebel.
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