mercoledì 5 giugno 2024

5 giugno 2004, la Mens Sana sul tetto d'Italia. Raccontata da Charly, l'uomo dei sogni

Il 5 giugno 2004 è una data scolpita nella memoria. In un giorno di estasi resa fedelmente forse solo in parte dalle immagini dell'epoca, sicuramente non descrivibile a parole, trasfigurata nell'ebbrezza dei ricordi di emozioni incancellabili, Siena conquistava il titolo di campione d'Italia con la vittoria dello scudetto della Mens Sana. Il primo scudetto, ma allora non si poteva saperlo, e per questo unico. In ogni caso unico. 
Venti anni dopo, lo celebriamo attraverso gli occhi, il cuore e le parole di uno degli artefici di quella pagina di storia, colui che l'ha scritta dalla panchina, portando Siena dove non era mai stata. Ospitiamo con orgoglio il ricordo di Carlo Recalcati.
 
 
La prima volta è speciale. Io avevo già vissuto la prima volta da giocatore a Cantù, la prima volta da allenatore a Varese, la prima volta anche per la società alla Fortitudo. A Siena ero nella situazione di sapere quali sarebbero state le reazioni a quel risultato. Perché il programma era quello: non subito quell'anno, ma l'accordo era triennale proprio perché l'obiettivo della programmazione che arrivava già dagli anni precedenti e dalla vittoria della Saporta con Ataman era vincere il campionato nel giro di due anni o tre. Certo, la Fortitudo ci era già arrivata vicina in più occasioni mentre Siena ancora non era mai stata neanche in finale, però la situazione, la passione, la città, l'attesa, la competenza e l'organizzazione erano molto simili, mi dovevo semplicemente calare in una realtà analoga con le stesse motivazioni, aspettative e pressioni dettati dalla voglia di raggiungere l'obiettivo. Ma avendo già provato io la soddisfazione della prima volta, riuscirci a Siena è stato doppiamente gratificante, per me in prima persona e per ammirare cosa succede in un ambiente che aspetta un risultato di quel tipo da così tanto tempo.
 
Già nel 1997 dovevo allenare Siena: avevo trovato l'accordo con Minucci, poi per problemi familiari legati alla salute di mia madre, e per la necessità di restarle vicino, avevo chiesto a Ferdinando di sollevarmi dall'impegno. I casi della vita: mia madre era sostanzialmente in coma e quando andavo a trovarla all'ospedale il dottore mi diceva di parlarle, quando le dissi che non sarei più venuto a Siena ma sarei andato a Varese il mattino dopo il medico mi chiamò per dirmi che si era svegliata. Un motivo in più per avere l'opportunità di restare vicino a casa. Ferdinando fu carinissimo, ma eravamo rimasti con l'impegno morale nei confronti suoi e di Siena che quando si fosse riproposta la possibilità l'avrei onorato. E' successo quando nel 2003 Minucci mi chiamò di nuovo: ero già in Nazionale e in una situazione molto diversa, mia madre era andata a stare stabilmente a Milano con mia sorella e dovevo solo ottenere il part time dalla Federazione, il terzo posto all'Europeo sarebbe arrivato a settembre ma io avevo già firmato a inizio estate. Felice di farlo, dopo le vittorie con Varese e Fortitudo.

In estate avevamo dovuto fare tutto abbastanza rapidamente, non ho avuto la possibilità di vivere il precampionato e l'avvicinamento alle attività perché ero via con la Nazionale. Venni per fare il programma con Minucci e per conoscere Pianigiani e Oldoini che erano gli assistenti, e con Simone passammo tanto tempo a parlare di questioni tecniche e di squadra, ma anche a conoscerci a livello personale, perché venne a Bormio dove ero in ritiro con la Nazionale. Lui è stato una scoperta piacevole per me, lo stimavo come tecnico ma non lo conoscevo come persona. E devo dire che portò avanti alla grande tutto ciò che avevamo preparato e discusso su situazioni, giocatori, giochi d'attacco, soluzioni difensive, e ogni volta che in allenamento verificava che dovevamo modificare qualcosa, prima di farlo mi chiamava e lo concordavamo insieme, è stato bravissimo.

Da Siena ero passato solamente per vedere dove sarei andato ad abitare, che era poi la stessa casa di Ataman, e al volo il giorno del raduno per fare un saluto alla squadra, poi sono rientrato solo a preparazione finita: ho dovuto fare un corso accelerato per capire e conoscere la città. La mia remora è che tuttora non l'ho ancora conosciuta, se non marginalmente, perché nei miei tre anni a Siena sono stato totalmente assorbito dal doppio impegno: in estate andavo in Nazionale e non ho mai visto il Palio, con tutto quello che significa vivere le contrade nei giorni precedenti. E durante l'anno uscivo quando arrivava mia moglie al venerdì, e l'unico locale che frequentavamo era quello di Ghiaccione, che non era proprio in città.

Avevo avuto, però, un compagno di squadra che mi ha introdotto a Siena, che era Alfredo Barlucchi. Aveva cinque anni più di me quando arrivai a Cantù, in trasferta eravamo gli unici due che studiavamo: io perché ero ancora un ragazzino e lui perché stava facendo ingegneria. Fu lui a decidere che dovevo chiamarmi Charly: quando arrivai da Milano c'era chi mi chiamava Carlino, chi Carletto, chi Carluccio... dopo tre-quattro anni che ero arrivato lui disse "basta, questo gioca come un americano, chiamiamolo Charly". E così ho avuto modo di conoscerlo, ed era bello perché si parlava di pallacanestro ma molto spesso di tuttaltro... e figurati se non mi ha parlato di Siena. Così ho imparato a conoscere Siena dai suoi racconti anni e anni prima di arrivare. Quando sono arrivato, queste cose le percepivo da chi poi è diventato mio amico, dallo stesso Simone, che mi raccontava tanto. Ma non è come viverlo direttamente.

La persona che avevo voluto in spogliatoio era Gek Galanda, perché avevo lavorato con lui e vinto già a Varese e alla Fortitudo, era il capitano della Nazionale, mi conosceva e io conoscevo lui. Avevo bisogno di avere una persona che nello spogliatoio potesse trasmettere il mio modo di essere, allenare, pensare, ma con Gek abbiamo esagerato: negli ultimi anni a Siena non mi divertivo neanche più ad allenarlo, mi toglieva il gusto, eravamo talmente in sintonia che capiva prima quando volevo fare una sfuriata, e mi anticipava quando avevo bisogno di alzare i toni o chiudere la squadra nello spogliatoio. Cioè una cosa che con le mie squadre succedeva sempre una volta all'anno: quando c'era un momento di tensione, facevo una riunione con i giocatori in cui facevo un intervento abbastanza pesante e gli dicevo "adesso vi chiudo a chiave nello spogliatoio un quarto d'ora, chiaritevi, confrontatevi". Negli ultimi anni con Gek non ero più padrone di fare una cosa del genere, perché lui arrivava prima.

Non ricordo quando questa giornata sia arrivata nell'anno dello scudetto, ricordo però una brutta sconfitta a Pesaro in cui il confronto non fu tanto con la squadra quanto con Ferdinando. Nella gestione del gruppo ognuno ha le sue abitudini, le sue erano molto diverse dalle mie e non era mai capitata la necessità di doversi confrontare su come affrontare un momento negativo: lui lo fece a modo suo entrando negli spogliatoi e sbraitando con la squadra, a me non andò bene perché non era nelle mie abitudini. Ci siamo confrontati io e lui, abbiamo chiarito, e da quel giorno zero problemi: non sono mancate le occasioni di intervenire con la squadra, ma sempre in maniera concordata, a volte anche suggerendogli qualche aggiunta se pensavo ce ne fosse bisogno. E mai più al termine di una partita, magari in settimana e anzi a volte anche dopo una vittoria, anche perché Ferdinando era molto attento anche al comportamento dei giocatori, non solo in partita ma anche in allenamento.
 
Quando mi chiedono dei miei tre successi, ho sempre detto che il segreto a Siena è stato l'organizzazione. Ho trovato una società molto preparata e in Minucci un dirigente illuminato con cui ho avuto la possibilità di lavorare benissimo, visto oltretutto che non essendo sul posto in estate serve chi attiva il programma concordato, e questo ha dato la possibilità a me, ai collaboratori e alla squadra di lavorare in condizioni ottimali nonostante le circostanze. Eravamo sempre in contatto telefonico, soprattutto quando c'era da costruire la squadra, e ha allestito un organico veramente a mia misura. A me piacevano le squadre in cui non c'erano doppioni, in cui cambi un giocatore e ne entra un altro con caratteristiche diverse e noi abbiamo centrato tutto in quell'ottica.

Il play era Stefanov e il cambio Vanterpool che non era un regista di ruolo ma un giocatore con un'intelligenza cestistica superiore alla norma che poteva giocare nei tre ruoli degli esterni; due centri come Chiacig e Andersen con caratteristiche un po' diverse e Galanda che poteva cambiarsi con Kakiouzis ma anche giocarci insieme da finto centro. Bastava cambiare un giocatore per cambiare fisionomia per provare ogni soluzione offensiva o difensiva, quintetti alti o piccoli, con un play di ruolo o due, con un pivot o due o un finto pivot, o Zukauskas quattro abbassando l'assetto, o Vukcevic guardia, o Thornton che poteva giocare in tutti i ruoli: basta pensare che quando Bootsy andò via da Siena mi telefonò Pesic, che l'aveva preso al Barcellona, per chiedermi le caratteristiche e quando gli chiesi cosa stava cercando mi disse "un 4"... Giusto per raccontare la sua poliedricità.

Poi per i playoff abbiamo preso Sambugaro perché i nostri ragazzi a fine stagione avevano le finali giovanili, ma siamo partiti con l'idea di un roster con nove titolari e tre giocatori del settore giovanile: e parliamo di Vitali, Lechthaler, Datome, Marino... giocatori che stavano benissimo in campo, e in allenamento. Quello in cui Minucci mi seguì, nella mia idea di programmazione, era che, focalizzando la stagione sul campionato, proposi e lui fu d'accordo di utilizzare le partite di Eurolega per far fare esperienza ai giovani: così è finita che Vitali è stato in campo a Tel Aviv, negli anni successivi anche Datome per esempio col Panathinaikos, proprio perché l'idea era quella. E poi in Eurolega siamo addirittura arrivati fino alla Final Four... perché in questi casi va così.

E, siccome nei successi avuti ho sempre trovato un momento negativo che poi ha permesso alla squadra di prendere coscienza ancora di più del proprio potenziale, è in Eurolega - a Treviso in coppa - che è arrivata la partita in cui pur uscendo sconfitti ci dette la convinzione che ci serviva. Ma onestamente io non ho mai avuto dubbi, sono sempre stato convinto, col passare delle settimane lavorando con il gruppo e vedendo il lavoro che aveva fatto Simone. Io tornavo dai campionati europei in cui era andato tutto benissimo, avevamo centrato la qualificazione a sorpresa all'Olimpiade: in quella situazione sei gasatissimo, arrivi con questo stato di euforia in cui tutto ti sembra possibile, ti rendi conto che il lavoro che è stato fatto e che prosegui a fare dà riscontri positivi. Ero in uno stato di grazia, e per questo forse ero l'unico che ha cominciato a crederci prima.

I giorni dello scudetto sono stati molto particolari per me. Il 2 giugno eravamo a Bologna per gara-2 quando a mattina alle 4 mi telefonò mia sorella per dirmi che mia madre era morta: si era trascinata quella malattia, ma ero talmente impegnato che non sono riuscito a vederla morire. Avevo già parlato con Ferdinando del fatto che avrei fatto in tempo da Bologna a Milano ad andare e a tornare per la partita della sera. Ma c'era lo sciopero dei treni e per questo non sono riuscito a trovare neanche una macchina, quindi non ce l'ho neanche fatta ad andare. Ho vissuto quella giornata si può capire come. Non ho voluto neanche il minuto di silenzio, non me la sentivo: anche se venivamo da mesi di malattia era stata una notizia troppo repentina. La notte stessa dopo quella partita sono andato a Milano, ho partecipato ai funerali e sono stati giorni un po' particolari.

Rimettere la testa sul basket mi ha aiutato: fortunatamente o sfortunatamente ho un carattere per cui provo grandi emozioni, in positivo e in negativo, ma le metabolizzo in fretta. Anche con la felicità, non vado avanti settimane portandomela dietro, ma brucio tutto in pochi giorni. E così quel dolore lì. Per questo il ricordo di quel 5 giugno resta nel mio cuore, e alla fine il giorno di gara-3 di finale me lo sono goduto: nel marasma generale ho avuto la freddezza di osservare quello che succedeva attorno a me, ed è stata una sensazione fantastica. Ricordo che mi portavano in trionfo, ma io guardavo le facce di quelli che mi portavano in trionfo, ed essendo in alto vedevo tutto il campo pieno di gente, riuscivo a vederli tutti come non sarei riuscito a fare restando per terra. Vedere la gente impazzita, i dirigenti, i giocatori, il pubblico, la stampa, e mi soffermavo a guardare la reazione anche singolarmente delle persone che vedevo felici per qualcosa che provavano per la prima volta.

Qualche anno fa sono stato contattato per tornare ad allenare a Siena. Avevo già deciso di smettere di allenare, anzi avevo proprio già smesso. Però devo dire che è stata una grande tentazione, proprio perché non ho mai avuto la fortuna di vivere la città. Ed è questo che mi sento di dire a Siena, che sono rammaricato di non essermela goduta e di non aver avuto la possibilità di frequentare abbastanza i senesi per entrare in sintonia ancora di più di quanto abbiamo fatto. Mi riprometto sempre di tornare. Chissà... magari a questo punto per il 25° anniversario.
 
Carlo Recalcati 

 

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