Intorno alla metà di Giugno la Mens Sana Basket giocò una gara ufficiale anche nel lontano 1968.
A pensarci bene suona strano, perché quella pallacanestro e il suo contesto a prima vista sembrano così lontani dal basket odierno, cui il calendario ha imposto forsennate serie di playoff protrattesi fin quando in Piazza del Campo erano già stati montati i palchi e steso il tufo e comunque giocate in impianti privi di climatizzazione che fanno degli spettatori maleodoranti saponette e errabondi assetati in cerca dell'oasi gli atleti.
Sabato 15 o domenica 16 Giugno 1968, non so di preciso, la Mens Sana giocò una partita valida per gli ottavi di finale di Coppa Italia, persa 43-63 con quella Fides Napoli che 3 settimane dopo si sarebbe aggiudicata il torneo a spese della Fortitudo Bologna.
***
Il recente passato
Lasciando quell'epoca per certi aspetti folkloristica e aprendo lo zoom sugli otto anni irripetibili del sodalizio biancoverde (2007 – 2014), troviamo 21 partite, 15 delle quali furono vinte e 6 perse.
Essendo tutte gare di serie di finali scudetto è facile intuire come dentro vi si trovino sia gioie deflagranti che delusioni fortissime.
Per essere più precisi la delusione è una, legata alla serie contro l'EA7 Milano di Banchi, Hackett e Moss del 2014 ed è una miscela di situazioni a cui fa da sfondo uno scenario tremendo.
Basti pensare al tiro da 3 punti di Matt Janning, che entrando nella retina avrebbe consegnato il nono scudetto (l'ottavo consecutivo) e invece girando sul ferro e poi uscendo dispettoso divenne per Jerrells l'occasione per portare la finale a gara7 a Milano.
Oppure si ripensi a quel time out chiamato per esigenze televisive dall'arbitro Lamonica nel corso dell'ultimo e decisivo quarto al Forum, quando la Mens Sana, in vantaggio e in fiducia, aveva l'inerzia della gara dalla sua parte.
Ecco, a questi episodi faceva da sfondo un contesto emotivo che per la Società, gli appassionati e una parte della Città era paragonabile a quello di un'imminente esecuzione capitale.
Sono numericamente maggiori le gioie, perché nel 2007 (vittoria 90-82 sulla Vidivici Bologna), nel 2009 (vittoria 82-47 al Forum sull'Armani Jeans), nel 2010 (nuova vittoria al Forum 93-69), nel 2011 (63-61 sulla Bennet Cantù), nel 2012 (84-73 ancora su Milano) e nel 2013 (79-63 sull'Acea al Palazzetto dello Sport di Roma) i biancoverdi si presero ben 6 scudetti (quello del 2008 era stato conquistato la settimana precedente).
Addirittura c'è un giorno, il 19 Giugno, che vide assegnarne ben 3: nel 2010, nel 2011 e nel 2013!
Ma non sempre il giorno e la partita dell'assegnazione dello scudetto coincidono con le immagini simbolo, quelle che hanno fatto sognare gli appassionati, li hanno fatti parlare e gioire a lungo e anche a distanza di anni continuano a farlo.
Alludo per esempio al secondo tempo della partita di Casalecchio di Reno del 15 Giugno 2007.
E' vero che poi in gara3 ci sarà il così detto “canestro da 4 punti” di Kaukenas (tripla + tiro libero addizionale), ma nel secondo tempo di quella gara2 vinta 86-65, lo stesso Kaukenas per larga parte, Forte per certi aspetti e l'asse Mc Intyre/Eze per i pick & roll da manuale (Terrell 9 assist), dimostrarono pubblicamente quanto possa essere meraviglioso il gioco dentro quel rettangolo di 28 metri per 15 e quanto la squadra biancoverde ne fosse in quegli anni un fulgido esempio.
Un'altra icona è certamente l'immagine di Shaun Stonerook esultante dopo la bomba che il 17 Giugno 2011 chiuse gara4 al Pianella (69-65), concedendo alle speranze senesi 3 match points, di cui due casalinghi, per conquistare il sesto scudetto contro la Bennet Cantù.
E come non considerare iconica la pioggia di triple dalla lunghissima distanza grazie a cui il 15 Giugno 2013 Bobby Brown rianimò una Montepaschi in difficoltà, portandola alla vittoria e al 2-1 nella serie contro l'Acea di Datome e Gani Lawal?
Bobby Brown nella finale 2013 contro Roma (si ringrazia Alessia Bruchi Fotografia) |
***
La critica
Ma la storia biancoverde, specialmente quella dei successi e dell'esempio riconosciuto, conclamato e portato in lungo e in largo in Europa e fin là, sui campi da sogno dell'NBA, non è fatta solo di icone, ma di tanto altro.
Uomini. Professionisti. Esperienze. Strategie. Scelte. Metodo. Passione. Sfide.
E lavoro. Duro lavoro!
L'ambiente professionale costruito col tempo, anche sugli errori e le amarezze e consolidatosi negli anni era divenuto quanto di meglio ci fosse in Italia, per distacco, e stava al passo con le big europee, tutte polisportive dai budget astronomici e forti di milioni di tifosi nel mondo.
In quel contesto il singolo era solo una parte del gruppo. Funzionale ad esso, ma comunque non essenziale, per importante che fosse.
Lo spiega bene un emozionato Luca Banchi nella sala stampa del Palazzetto al Flaminio, in Roma.
E' il 19 Giugno 2013 e l'allenatore grossetano ha appena conquistato il primo scudetto da capo allenatore, dopo i sei da vice di Pianigiani.
L'esordio è una premessa “Io non valgo Simone; Bobby non vale Bo; Kristjan non vale Shaun; Ortner non vale Lavrinovic”.
Poi però precisa “Durante il campionato ne son successe tante che potevano aver minato la nostra fiducia, invece com'è tradizione di questo Club ci siamo concentrati sul lavoro”.
Com'è tradizione di questo Club ci siamo concentrati sul lavoro. Capito?
Sì, il lavoro. Come quello di persone cestisticamente evolute che per anni hanno scelto Siena per il modello di efficienza che la Mens Sana rappresentava in Europa.
Come Shaun Stonerook per esempio, che Luca nel suo excursus non manca di ricordare.
“Quando Shaun ha deciso di smettere, ho sentito il peso. Dando i galloni di capitano a Carraretto ci siamo presi un po' tutti la responsabilità di essere il tramite con i nuovi, perché quello che ha fatto Shaun in 6 anni è incredibile. In campo. Fuori dal campo. Ha alzato il livello di ognuno di noi in termini di conoscenza, ma anche in termini mentali. Per noi allenatori ogni giorno in palestra lui era uno stress, perché ci costringeva a dare il massimo”.
Ma Shaun era solo una parte di quel formidabile gruppo. Come lui altri e questo è il motivo per cui quanto descritto da Banchi è stato per anni lo standard quotidiano del lavoro tattico, tecnico e mentale sviluppato sul parquet di Viale Sclavo.
Eppure...
Eppure nella primavera del 2014 qualcuno ha deciso che niente di ciò che era stato costruito e era ancora in piedi potesse (o dovesse? Scegliete voi) essere conservato. Tutelato. Salvaguardato.
Le responsabilità, che ci sono state, eccome, sono ricadute non solo sui diretti interessati (su tutti?), ma a pioggia sull'intera struttura. Pure su chi responsabilità non ne aveva.
E' il male dei nostri giorni, dei nostri anni. Gli anni dei processi sommari in televisione, sui forum e nelle chat.
Ma è stato un peccato capitale smantellare tutto come se tutti fossero responsabili, perché è stata un'implicita ammissione che quanto raggiunto era fasullo. Falso. Di cartapesta, come al luna park, a teatro e al cinema.
Una penna locale arrivò a scrivere che le coppe e i trofei sequestrati, che qualcuno di tasca propria stava cercando di riportare alla Casa Madre, in fondo altro non erano che “un mucchio di latta”.
Un mucchio di latta.
E' del tutto evidente che l'attacco a quella Mens Sana è stato sferrato da Siena stessa. Ed è la cosa che fa più male.
E' anche per questo motivo che oggi i tifosi si fanno il sangue amaro sulle pagine tematiche dei social quando tentano di difenderne l'onorabilità dagli attacchi beceri e sguaiati dei tifosi delle altre squadre, che si ritengono vergini.
Sono i soli a difenderla: nessuna istituzione al loro fianco. Nessuna società. Nessuna penna. Nessuno!
E meno male che all'estero, è storia risaputa e prepotentemente riaffermata in questi giorni, sanno dare pane al pane e vino al vino e ricordano col massimo rispetto quegli antagonisti che per anni con onore e qualità hanno sfidato le loro corazzate.
Poco sopra parlavo di verginità, ma il “nero” della Mens Sana Basket era il segreto di Pulcinella che la accomunava a tutte le altre. Del mondo dei canestri e non solo.
Tra l'altro quando si parla di nero lo si fa partendo dall'assunto che i giocatori scelgano la società che più li paga, ma questa cosa, e chi mastica un po' di sport lo sa bene, non è la regola.
Sì, alcuni lo fanno. Firmano per una squadra nuova ogni anno, pensando solo ai numeri personali per poi monetizzare e magari cambiano anche tre maglie in una stagione.
Per contro vi sono professionisti che scelgono invece quelle Società che possano loro permettere di vincere, perché vincere, a parte gli aspetti di natura prettamente morale, aiuta comunque a guadagnare di più.
Sono professionisti che si affidano a staff che possano migliorarne o completarne la figura di giocatori, così che la loro carriera possa assumere una luce più viva e una considerazione generale maggiore.
Soffermandoci su questo secondo tipo di giocatori, proprio quelli che al tempo venivano definiti “da Mens Sana”, quei tanti che proprio lì in Viale Sclavo hanno visto la loro carriera decollare o svoltare, è con assoluta certezza che possiamo affermare che non sono stati i soldi, che avrebbero trovato anche altrove, a migliorarne le prestazioni.
Arrivati come pietre grezze, da scoprire e raffinare, si sono fermati facendo la storia o sono ripartiti che brillavano di una luce mai vista prima.
Gli esempi sono illustri e numerosi che ci vorrebbe una giornata per parlarne, ma come dicevo non è stato il denaro a formarli o migliorarli: è stata la struttura.
La struttura, quel qualcosa di unico e irripetibile che a Siena era basato su professionalità, organizzazione, competenze, conoscenze, esperienza, visione, volontà, dedizione, sinergie, stimolo e perfezionismo.
Mettere i giocatori nelle condizioni di rendere al meglio, di crescere o completarsi, non voleva dire mettergli nel conto corrente qualche dollaro in più, ma affidarli a professionisti competenti e permettere loro di concentrarsi esclusivamente sul lavoro, senza distrazioni o preoccupazioni.
Illuminanti al riguardo sono ancora le parole di Luca Banchi in quella sofferta conferenza stampa.
Quando gli attribuiscono il merito per un successo che va oltre ogni più ottimistica aspettativa, serenamente, col sorriso sulle labbra precisa:
“Non è merito mio, è la struttura! E' quella che dà continuità al lavoro. Quando dicevo un modello di ispirazione, è perché veramente noi siamo un'eccellenza. Lasciate perdere cosa ci urlano, cosa ci dicono... Vi dico: è la cosa migliore che possa capitare a un allenatore. Lavorare lì è la cosa migliore. E chi ti aiuta è il contesto. E' l'ambiente a trasferire questa mentalità”.
Creando prima, disfacendo poi, Siena ha fatto tutto da sola.
***
Leggi anche:
Storia da Grandi: L'incrocio con l'Altra Varese, il colpo promozione a Cantù, i baffi di Cosmelli
Storia da Grandi: L'inizio della magìa Olitalia e quella trasferta di paura verso il sogno Lione
Nessun commento:
Posta un commento