Sì sì lo so, non c’è bisogno di fare troppo i precisini. Lo so benissimo di non essere un oggetto, un vile manufatto artigianale (se non industriale), un trabiccolo da includere nella lista di memorabilia dal dubbio gusto che di solito elencate. Io sono un qualcosa che non si smarrisce, che non si dimentica; non come tutti i miei poco illustri colleghi che popolano l’armadietto zeppo di oggetti dimenticati da Dio. Tuttavia, visto che ho sentito che in questo spazio angusto e maleodorante vengono nominati grandi giocatori e si raccontano storie che sanno di basket e gioia, allora mi sono permesso, per una volta, di intrufolarmi.
Non un tatuaggio qualsiasi, un tribale già visto, una scritta giapponese di quelle che non si sa mai davvero cosa significhino. Io parlo, canto, ballo e racconto l’epica. “Nets 3”, mi chiamo, e per gli appassionati di pallacanestro sono sicuro che non ci sia bisogno di aggiungere altro. Per quelli invece che non hanno brividi o sensazioni da sindrome di Stendhal al cospetto di chi rappresento, consiglio un breve giro di ripasso su chi fosse il Sig. Petrovic Drazen: si dovrebbe trovare materiale a sufficienza. Boris, giustamente, lo ha scelto come modello e lo ha sempre messo davanti a tutti come ispiratore di canestri violati.
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Dal 1990 al ‘96 avviene la maturazione cestistica, in quell’Olimpija campione di Slovenia per cinque volte in sei anni. Boris sembra destinato a diventare il bandierone dell’Olimpija. E invece nisba. Arriva il trasferimento a Strasburgo e da lì in poi Gorenc diventa il prototipo del giocatore con la valigia, sempre in viaggio, rimbalzato da una squadra all’altra. Nel Gran Tour, ad un certo punto, entra l’Italia, Rimini. Il carattere non è facile, ma l’intensità che la ditta mette sul piatto è nettamente superiore alla media. Spesso equivale a dire vittoria.
Nel suo girovagare con me impresso nel bicipite destro, solo Siena ha saputo trattenerlo per più di una stagione, chissà perché. A Siena si trasferì tutta la famiglia, a Siena nacque la prima bambina. E’ come se il suo vulcano, sempre pronto ad un’eruzione di tipo esplosivo, si placasse di fronte alle colline che guardano il Chianti davanti a casa sua. Sono stati due anni magnifici. Il 2002 fu poi per Siena l’anno del primo vero trionfo, quella Coppa Saporta che chi vive di basket in questa città non scorderà mai.
Lo Zar, così avevano iniziato a soprannominarlo, dopo essere sempre andato sopra la doppia cifra in quella stagione di coppa, guidando spesso la squadra nei momenti in cui la bussola era smarrita, bucò proprio la finale. Nel tabellino di quella partita spiccano i 17 del Direttor Stefanov, i 14 del Professor Topic, i 23 del Senator Naumoski. E Boris? 4, con 1/7 al tiro. Questo piccolo ‘tradimento’, visto a posteriori, rappresenta quasi un atto d’amore. Era troppa l’emozione, anche per lui, di portare il primo titolo alla città. La gioia di tutti cancellò in fretta quel tabellino. Ricordo il guizzare dei suoi muscoli nel momento in cui, con gli occhi rivolti al cielo e stringendo forte la palla tra le mani, alzava il pugno dopo la vittoria. Gli stessi occhi dei tifosi, commossi, grati.
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Sì, perché il sentimento che la gente ci teneva a far conoscere, attraverso una carezza, una pacca, uno schiaffetto proprio sopra di me, era la gratitudine. Un bene che non si compra al supermercato, ma che si conquista passo dopo passo, allenamento dopo allenamento. E con i gesti, come quello simbolico che descrive alla perfezione il personaggio Gorenc.
Era successo nel gennaio 2001, in un’epica partita della Mens Sana al Pianella. Vittoria, soffertissima ma meritata, 67 a 73; lo Zar risulta semplicemente decisivo. Prima di uscire, Gorenc indugia, si prende il centro del campo, allarga le braccia, risponde stentoreo agli insulti dei canturini. Nella storica foto del gesto in questione si vedono nitidamente sullo fondo diverse signore impellicciate perdere completamente la brocca. Tanta roba.
Qualcosa per cui vale la pena indugiare, in una sera d’estate, davanti all’ennesima birra, per raccontarlo ancora. O per raccontare ancora una delle tante scorribande a ‘capo basso’ dello Zar sul parquet di Viale Sclavo.
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