Erano gli esordi in A e anni immediatamente successivi, quando andare al Palazzetto era non un'abitudine, non un diversivo, ma una vera e propria esigenza emotiva e fisica.
La radio locale più ancora del quotidiano stampato dava ritmo alla domenica cestistica, che imponeva il pranzo all'ora in cui altri hanno da poco fatta la prima colazione o, in alternativa, la preparazione di panini da mangiare al Palazzetto una volta seduti, spesso sulle scale, perché i posti ufficiali erano finiti. Non prima però di esser passati per lunghissime file al botteghino e all'ingresso.
Divorato il pranzo più per acquietare la tensione che lo stomaco, rimanevano ore e ore alla palla a due, spese perlopiù sul pregevole giornalino del Club Biancoverde, sulla Settimana Enigmistica o in casi di necessità su libri e quaderni di scuola.
Nell'Ottobre del '76 l'attesissimo passaggio nel nuovo ampio Palasport cambiò quei ritmi. Cessarono i brunch ante litteram e tornò anche il tempo per il pisolino. Poi “Tutto il calcio minuto per minuto” e radiolina in mano giù verso il Palazzone.
Chi seguiva anche la Robur sottostava a una disciplina severissima, articolata in più fasi, alcune in apnea. Cronoscalata per uscire dal Rastrello; partenza feroce con 500, Mini, Vespa o Ciao; slalom nel traffico ingolfato; forsennata caccia a un incastro che somigliasse vagamente a un parcheggio; assalto al botteghino o all'ingresso.
Passano gli anni, cambiano i ruoli societari e i protagonisti in campo, rimpianti o meno.
Tra cadute, risalite e primi viaggi in Europa sono stagioni di alti e bassi che tuttavia ci vedono stabili in quello spazio non soffocato dal calcio e dunque almeno lambito dalla stampa nazionale, dalle emittenti dell'etere e, di conseguenza, dagli sponsors.
Ma a parte i sempre presenti, il cui amore rimase puro e incondizionato, molti frequentavano il Palasport solo in presenza di chiare ambizioni e di primattori che sulla carta potessero illuminare la scena. Perciò, fatte salve brevi parentesi di effettiva superiorità tecnica e agonistica che spinsero anche i più esigenti e i più incostanti a muoversi, la realtà biancoverde parve andar via via chiudendosi nel limbo di una blanda routine.
L'entusiasmo per la travolgente novità sopito da tempo; ormai fuori portata le grandi, avvicinate invece in quei primi 3 anni di Dodecaedro; la continuità tecnica una chimera, poiché le modeste risorse economiche restringevano la scelta nella corsa ai rinforzi, che non essendo di prima e magari nemmeno di seconda fascia si portavano in Viale Sclavo un bagaglio fatto più di rischi e incognite che di certezze.
In quei frangenti si devono principalmente a locali famiglie di costruttori edili quelle momentanee fughe da una realtà regressiva. E il loro accollarsi l'onere di una gestione societaria sempre in bilico sul cornicione merita ancor oggi rispetto e ringraziamento.
Dunque nel complesso non ricavammo mai l'idea di una realtà posta su basi solide, che potesse programmare e per questo mai potemmo sostenere una compagine davvero lanciata verso il futuro.
Al contrario, a parte quei brevi cicli d'irrefrenabile, antico entusiasmo e mettendo da parte il cuore, che in genere alimentava speranze troppo a buon mercato, la sensazione prevalente era quella di perenne precarietà.
E' vero che mentre in Viale Sclavo in qualche modo ci si arrangiava certe società intanto sparivano, ma è altrettanto vero che i limiti in cui si era costretti a operare erano spesso angusti, così da mostrare un passo tutt'altro che spedito e sicuro. Più simile a quello su una biciancola appoggiata su un fulcro piccolo e instabile, se quasi ogni anno nella tarda primavera un'allerta faceva pensare a un severo ridimensionamento o peggio ancora alla fine.
Tutto ciò finché una certa banca non decise di cambiarne la storia.
Non direttamente dapprima, ma dirottandovi come main sponsor società satelliti o clienti.
Poi in capo a una decina d'anni ecco il passo tanto atteso, auspicato da ben oltre due decenni, che permise per la prima volta di elaborare progetti degni di tale nome.
Procuratori che offrono i migliori, prime scelte, contratti pluriennali, programmazione. Sensazioni sublimi, mai provate prima: una pacchia.
Vincere poi, si sa, non è automatico. E nemmeno matematico. Quando con impegno, fatica e a suon di “musate” si son raggiunti i migliori, scavalcarli sembra ancora più difficile, perché diviene una questione di dettagli, di particolari, di sfumature da perfezionare e di caratteristiche che si sposano perfettamente, anche nell'aspetto umano.
Comunque vincemmo, sul campo come sugli spalti. Con sudore, passione, nervi tesi, oltre cento battiti al minuto e quel giusto punto di ubriacatura.
E dopo nuovi inciampi, dolori della crescita li chiamano, vincemmo nuovamente per poi stravincere e stravincere, suggellando in modo imperituro l'autostima e la consapevolezza di chi su quegli spalti c'era cresciuto o invecchiato, soffrendo ed esaltandosi, ma a un certo punto della scalata sentendosi anche inadeguato, perché in scacco dei team che nell'empireo c'erano già e non volevano fare entrare noi, anzi provavano a cucirci addosso l'etichetta di perdenti.
Saltando scientemente gli eventi degli ultimi sei anni, così destabilizzanti, così dolorosi, si è nell'attualità, che pur proponendo stravolgenti novità mi vede in disaccordo sulla locuzione “anno 0”, perché se molte cose sono oggettivamente e drasticamente cambiate, rimane con altre non meno importanti un sicuro continuum.
Basti pensare ai ragazzi delle giovanili. E a tanta altra gente: i tifosi comuni.
E poi c'è la storia!
Quella che in ogni palestra la Mens Sana si porterà appresso. Tanta. Pregiata.
E' una straordinaria collezione di ricchissime esperienze che lega indissolubilmente il nuovo coach all'ultimo dei tifosi all'altro capo del mondo, passando per gli atleti, i sostenitori, i dirigenti, i collaboratori, le aziende partner, la stampa.
In ogni singolo elemento di questo tessuto vivono la consapevolezza e l'orgoglio di essere Mens Sana, uno status che altri, pur virtuosi, non potranno mai vantare.
Prendiamo per esempio il settore giovanile, che per inciso in questi 45 anni insieme ai tifosi ha rappresentato l'elemento di maggior continuità della galassia biancoverde.
Pur tra scaloni di budget assolutamente non proporzionali gli uni con gli altri, che negli anni talvolta hanno permesso di rastrellare talenti tra i migliori del continente e tal altra, con ambizioni recisamente più misurate, costretto a lavorare poco oltre il livello cittadino, la Mens Sana è stata ritenuta un riferimento assoluto e costante nel settore, e l'attrazione che da sempre esercita sui giovanissimi atleti e sulle famiglie non è mai venuta meno.
E anche in questa fase delicatissima, nel momento più nero della vita della sezione cestistica, è stato un assoluto punto di forza. Infatti il nuovo capitolo che oggi si apre verrà scritto anche grazie ai muscoli, alla scuola, al talento, al carattere, all'orgoglio e ai cromosomi di ragazzi sbocciati nel vivaio, portati al Palasport fin da piccolissimi e lì visti crescere da genitori che in quella struttura sono di casa e di bottega da sempre.
Ricordo con quali occhi nel Novembre del '73 nel vecchio palazzetto guardammo il mito chiamato “scarpette rosse”. E ricordo bene l'ammirazione, il rispetto e la paura che incutevano le maglie gialle dell'Ignis campione d'Italia, d'Europa e del mondo, quando nel Marzo del '74 per farle ammirare proprio a tutti, sistemarono noi mocciosi sul campo, seduti un passo appena oltre le linee di gioco.
Grazie alle infinite lezioni ricevute e impartite e ai quarti di nobiltà decretati dal campo, oggi è proprio la Mens Sana oggetto di quegli sguardi che esprimono attonita meraviglia.
“So walk tall, or baby don't walk at all”
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Chapeau. Biancoverde è il nostro cuore.
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