Ad Abijan, capitale della Costa d’Avorio, si stava per disputare la finale del Campionato Africano di pallacanestro, con Carlos sempre più leader della nazionale angolana e l’Egitto come ultimo scoglio prima del trionfo. Certo, con lui in rosa l’Angola aveva già fatto incetta di titoli (2005, 2007, 2009), ma nell’edizione precedente, quella in Madagascar nel 2011, la Tunisia aveva sorpreso tutti e con un ruggito inaspettato si era portata a casa il titolo continentale. C’era bisogno di ristabilire le gerarchie, di riportare i colori rosso e nero della bandiera a sventolare più in alto di tutti, come da tradizione in Africa.
Il 57 a 40, risultato finale quella sera, la dice lunga. Non sarà stata la finale del secolo ma tanto bastava: Egitto schiantato, tenuto a un punteggio da squadra minors in crisi di gioco e Angola di nuovo campione. Di quei cinquantasette punti Carlos ne segnò 21, risultando a tratti immarcabile anche se sestuplicato dai giocatori egiziani, a cui non rimase che invocare il faraone Tutankamon per mettere fine il prima possibile a quello strazio di partita (per loro).
Ma siccome, lo abbiamo detto, quella era una di quelle notti, per Morais non c’era solo il gusto della vittoria, ma anche, in lontananza, l’odore dolce dello sciroppo d’acero e la prospettiva di avere davanti agli occhi le luci sfavillanti delle arene NBA. Era infatti pronto per lui un contratto coi Toronto Raptors, che già da diversi mesi avevano sguinzagliato i propri scout sulle sue tracce come segugi tenuti a dieta stretta. Luanda, quella sera del 31 ottobre, non era più la capitale dell’Angola, era diventata Rio de Janeiro: oltre ai festeggiamenti per la vittoria, sembrava che tutti fossero stati ‘draftati’ per il campionato Pro statunitense, tanta era la partecipazione popolare all’evento che riguardava Carlos.
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In terra canadese poi, vuoi per il clima non proprio mite a cui non era abituato, vuoi per la crudeltà del sistema NBA che ti mastica e ti sputa via se non riesci subito a rendere a pieno regime, non andrà proprio come sperato, ma quell’esperienza sarà comunque fondamentale per rilanciarsi, stavolta in Portogallo, come giocatore di livello internazionale. L’occasione gliela dà il Benfica, club con il quale creerà un rapporto speciale, quasi simbiotico; a Lisbona il suo grande cuore, in campo e fuori, sarà ben presto conosciuto da tutti.
Nel campionato lusitano Morais porterà in dote la sua vena realizzativa, costante più di una sorgente d’alta montagna, un atletismo da Superman e soprattutto la sua generosità in entrambi i lati del campo. Se c’è da fare un tuffo e sbucciarsi un ginocchio, i primi piedi a staccare da terra verso un destino ignoto e spesso crudele sono quelli di Carlos. Con il Benfica vince cinque titoli in due anni, sfiora il sesto ed è sempre in campo nei momenti decisivi; per il suo coach è una specie di talismano da cui non separarsi mai.
“Non sono un One man show. Sono solo un gran lavoratore a cui piace vincere”. Queste le prime parole di Morais al suo arrivo a Siena. Solo parole di circostanza? La classica dichiarazione tipo ‘modulo precompilato per atleti in difficoltà di fronte ai microfoni’? Non si direbbe, dopo quello che si è visto nelle sue prime uscite in biancoverde. Nonostante gli infortuni che lo hanno tartassato peggio di un esattore delle tasse fin da inizio stagione, non si è mai risparmiato, giocando anche sul dolore. Come domenica scorsa, nella prima bellissima vittoria stagionale della Mens Sana a Tortona; lui all’inizio nemmeno doveva esserci, poi non solo ha giocato, ma l’ha pure vinta quella partita, dando un paio di zampate da belva feroce sul finale che hanno ribaltato un match ormai quasi segnato.
Morais, che di secondo e terzo nome fa Edilson Alcantara, si chiamerà pure come un soffice rivestimento da divano, ma i difensori avversari hanno già capito che giocare contro di lui e fare i conti con gli spigoli del suo corpo è ben diverso che appoggiarsi ad un morbido sofà. I tifosi della Mens Sana, dal canto loro, sperano che anche a palazzo, qualche volta, vada in scena la replica di ‘una di quelle notti’ con Morais a fare il mattatore.
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