In quel canto, in cui è contenuto meglio che in uno scrigno di diamanti quell’assoluto capolavoro che è l’inno alla Vergine pronunciato da S. Bernardo, il Sommo si paragona ad uno che si è appena risvegliato e, del sogno appena fatto, non può che trattenere solo una parte, l’essenziale: la passione. Ma non è certo poca cosa: è quella, infatti, che lo spinge a scrivere, a raccontarci l’imminente visione di Dio. A ben pensarci, è sempre lei, madama Passione, a muovere tutti noi, per cercare di fare bene quello che facciamo. Oddio, chi più chi meno a dire il vero.
Ma in qualche essere umano la scintilla splende in maniera particolare. Uno di questi è Andrew Joseph Pacher. Il suo, di sogni, era fare il giocatore di basket; di quel sogno, ovunque abbia giocato, gli è rimasta attaccata la cosa fondamentale, la Passione, ed è un talento raro come un Calippo nel Sahara di questi tempi.
Nato il 17 febbraio 1992 a Vandalia, cittadina che richiama alla mente più le orde barbariche d’un tempo che fu che lo stato dell’Ohio dov’è ubicata, Pacher frequenta la Wright State University a Dyton, vicino casa. L’inizio è lento, timido, da ‘matricolina’ alle prime armi. Ma il fuoco che gli brucia dentro comincia ben presto a scaldare compagni e allenatori. Nel giro di due stagioni è già il primo rimbalzista della squadra e uno dei migliori realizzatori; quando, nel 2014, riesce a staccare il prezioso biglietto che lo rende “eleggibile” al draft NBA, Pacher si guarda allo specchio, si piace più di Gianluca Vacchi che fa un selfie e capisce che la sua strada è segnata: farà il giocatore di pallacanestro.
Le franchigie Pro, tuttavia, lo snobbano, con la scusa che di giocatori come lui ce ne sono a bizzeffe. Se lo dicono loro. Lui si scrolla la polvere della delusione dalle spalle e va avanti; accanto ha sempre la sua amica più fedele, Miss Passione, che lo tiene a braccetto e non lo lascia mai. Con lei al suo fianco la decisione di attraversare la ‘pozza’ atlantica e scegliere il Vecchio Continente per giocare non è così difficile da prendere. Con lei al suo fianco si va dappertutto.
Chi lo ha visto in campo, non solo domenica contro Rieti ma anche nelle amichevoli prestagionali, ha potuto costatare di persona quello che significa il concetto espresso in precedenza: AJ è il primo a incoraggiare, congratularsi, aiutare i compagni. Si dice in giro che alla fine di qualche allenamento sia andato a dare ‘il cinque’ anche al custode che spazzava il parquet. Giocare con uno così, specialmente se sei giovane, deve per forza infonderti una carica particolare, che in una sorta di osmosi cestistica tende a coinvolgere e migliorare tutti. Il compagno di squadra ideale, insomma.
Le sue prime parole all’arrivo a Siena sono una sorta di manifesto personale: “Mi definisco come uno che ama giocare e gioca con molta passione (ancora lei). Sono un lungo versatile, che può giocare dentro e fuori, sfruttando il tiro ma anche i movimenti in avvicinamento al ferro”. Ti par poco? In più c’è la sua attitudine, che rappresenta davvero un valore aggiunto meglio di un’offerta 3x2 al supermercato.
La partita contro Rieti, dicevamo. Il primo tempo di AJ somiglia a quello di tutta la squadra: guardingo, piuttosto moscio, al limite della sonnolenza tecnico/tattica. Poi nella ripresa, quando ormai la squadra è sul crinale di fronte al baratro, il gallo comincia a fare il suo mestiere e suona la sveglia per tutti. A cantare e fare chicchirichì, oltre a Morais e alla super difesa di Prandin su Fraizer, è soprattutto l’ugola di AJ, che segna due bombe di importanza capitale e accende la lucina della speranza in tutta la squadra. L’urlo verso la nord di ‘galandiana’ memoria dopo il canestro che riporta la squadra a -2 è la fotografia perfetta della sua partita. Da lì in poi è solido più del travertino: dispensa saggezza in difesa ed è sempre sul pezzo nella metà campo offensiva, anche quando la palla viene lasciata in mano a Carlos Alcantara (Morais) con licenza di inventare.
A fine gara, oltre agli applausi di tutto il palazzo, ad attendere AJ c’è ovviamente lei, la Signora Passione, che con il suo sguardo attento non lo ha mai mollato nemmeno per un secondo.
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